“Il volersi bene si costruisce. Ma l’amore, quello vero, no. L’amore lo senti immediato, non ha tempo. È dire -ti sento-. Un contatto di pelle, un abbraccio, un bacio. Mantenersi, il mio verbo preferito, tenersi per mano. Ti può bastare per la vita intera, un attimo, un incontro. Rinunciarvi è folle, sempre e comunque”

(Erri De Luca, “I pesci non chiudono gli occhi”)

Questa è una parola che amo e che temo, allo stesso tempo.

Contatto: CON TATTO. Con delicatezza e rispetto.

Il Contatto è il bisogno primario di ciascun essere umano, è nutrimento per l’anima: allo stesso livello del cibo che ingeriamo, che serve per nutrire il corpo, dei concetti che immagazziniamo per nutrire il nostro cervello. Il Contatto è il bisogno primordiale per eccellenza, colui senza il quale non impariamo ad amarci e, solo poi, ad amare.

Quando aspettavo Tommaso ho letto moltissimo e ho passato tanto tempo a guardarmi dentro, per cercare di capire che genere di Mamma sarei stata: sostanzialmente un distinguo da ciò che avrei voluto dare e ciò che invece avrei POTUTO. Mi sono imbattuta in un testo bellissimo di Verena Schmid “Venire al mondo e dare alla luce”, che raccontava proprio del contatto tra madre e figlio dall’utero a fuori da esso. Ho capito che AVREI VOLUTO E POTUTO mantenere una estrema connessione tra ciò che eravamo e ciò che saremmo diventati di lì a poco.

Da qui, il bisogno di tenerlo sempre vicino al cuore con la fascia, di stringerlo sul petto durante le notti che parevano eterne, di portare avanti l’allattamento a richiesta per i primi 2 anni e 9 mesi, di provare a creare una relazione alla pari, che parlasse di me, di lui e del nostro nuovo modo di restare in contatto.

Perché, appunto, il contatto non è fatto solo di vicinanza fisica: rimanere in contatto significa non perdersi. Per non perdere i nostri figli ed il contatto con loro, dobbiamo, sopra ogni cosa, mantenere il contatto con noi stessi, con la nostra parte istintiva. Solo così, ascoltandoci e parlandoci con Amore, sapremo ascoltare e parlare con Amore ai nostri figli. Non sempre, è vero: perché ogni tanto vale sbuffare, stufarsi, sfogarsi, piangere, innervosirsi. Vale tutto ciò che parla di noi, che permette ai nostri figli di capire chi siamo davvero (aldilà del nostro ruolo genitoriale), che permette a noi di non perderci, e che permette ad entrambi di rimanere in contatto. Anche se fisicamente distanti.